Daniele Trucco è un compositore e cantautore. Ci presenta il suo ultimo album "vILLA tEMI", dove ha sperimentato molti suoni, ricavandone la vera essenza della musica.
Quali sono state le esperienze che ti hanno maggiormente formato?
Il mio percorso musicale da ‘ascoltatore’ ha avuto molte sfaccettature: sono stato e sono tuttora un grande appassionato di musica classica e di jazz. Se ripenso però all’adolescenza non posso non accennare alla grandissima passione per gli Emerson, Lake & Palmer (e la scena prog in generale) e per la tradizione cantautoriale italiana. Il primo ascolto di Claudio Lolli fu senza dubbio folgorante, come lo furono anche i ‘minori’ Mimmo Cavallo (per chi non lo conoscesse Siamo meridionali è un album che merita l’acquisto) e l’Enzo Maolucci di Barbari e bar. Dopo aver assimilato i grandi, tutta la musica di nicchia mi affascinò moltissimo e scoprii tra gli altri i lavori di Stefano Testa, Loy e Altomare, Giorgio Conte e Flavio Giurato e, come dimostra l’omaggio sul mio disco, Stefano Rosso.
Ci parli del tuo nuovo album “vILLA tEMI”?
Fino a oggi, a parte una piccola digressione nel mondo della canzone per bambini con "La storia non mi va" che ho scritto per la piccola Sofia Del Baldo e che ho da poco riarrangiato per l’artista argentino Marcelino Azaguate, mi sono sempre dedicato a composizioni di carattere sperimentale in grado di fondere la musica con la poesia (come in Approdi / Landings, poema elettronico sui versi di Sergio Gallo) o con la matematica (con Math Music e Pr1me Numbers ho tentato la trasposizione musicale di alcuni importanti concetti legati al mondo dei numeri).
vILLA tEMI è il mio primo passo verso la tradizione cantautoriale italiana: i brani che compongono l’album sono stati scritti tra il 2012 e il 2019 e li ho scelti tra una rosa più ampia di pezzi che andranno a confluire in altri progetti che ho in mente. Ho registrato tutto in casa – ecco il titolo – con mezzi semi professionali e lo stesso mix è stato effettuato da me durante i mesi di lockdown. Ho suonato cose che non sapevo suonare, come la batteria, il flauto e le chitarre giocattolo di mio figlio, e cantato pur non essendo un cantante. È stato un bell’atto di presunzione, me ne rendo conto: forse l’unica cosa che ritengo di saper fare un po’ meglio tra quelle legate alla musica è suonare il pianoforte; tutte le altre, come le tecniche di posizionamento dei microfoni, l’utilizzo dei software, le operazioni di missaggio e l’uso dell’effettistica, le ho apprese strada facendo in modo amatoriale e discontinuo. Il risultato, anche se paradossalmente penso sia uno dei punti di forza del lavoro, lo fa percepire nelle frequenze ‘tagliate male’ di alcuni strumenti, nei fruscii che non sono riuscito ad abbattere e nei rumori di fondo captati in ambienti molto distanti da quelli di una sala di incisione. Al contrario delle raffinatezze audiofile per appassionati, questo è un disco in cui nel sottobosco delle tracce si può scoprire di tutto: cani che abbaiano, lavatrici che centrifugano nel silenzio della notte o bambini che schiamazzano al piano di sopra.
Oltretutto brani come La scuola o God avevano già parte delle tracce incise nel 2012 con tecniche e strumentazioni diverse da quelle che ho oggi a disposizione: ho voluto mantenere tutto e ho aggiornato le linee vocali con sovraincisioni mie e di mia figlia Benedetta. Ha solo sette anni ma, fedele alla linea del titolo, non volevo ‘uscire di casa’ per nessun motivo.
Qual è il messaggio che vuoi comunicare attraverso le tue canzoni?
I messaggi possono essere molto differenti: di fondo c’è una certa malinconia che serpeggia in un po’ tutti i testi, malinconia scaturita da narrazioni che si riferiscono allo scorrere del tempo, tema a me molto caro; ogni canzone comunque è un compartimento stagno. Si va dal divertissement de Il compito in classe, trasposizione del paradosso logico dell’impiccato, a I dubbi di Adamo, semiseria canzone in cui uno spaesato Adamo si interroga sulla funzione del suo ombelico e sulla mancanza di ricordi circa la sua giovinezza.
Ne La scuola, Un giorno diverso e in Un Natale si capta meglio invece quello a cui mi riferivo circa lo scorrere del tempo: sono brani di memorie comuni un po’ a tutti ma in grado di rimbalzarci in atmosfere care e, purtroppo, sfumate e lontane.
Nell’album compare in anteprima la versione demo di Voglio Elena, brano più leggero nei contenuti e che verrà presentato a settembre con un arrangiamento pop supportato da un videoclip girato dalla Filmalo Production, gruppo di ragazzi appassionati di cinema e frequentanti le scuole superiori di Cuneo. Gli attori, anch’essi ragazzi, saranno diretti per l’occasione dal diciassettenne regista Filippo Ariaudo, già autore del corto Vulnu’s rising.
Quanto contano secondo te la passione, la costanza e la motivazione per avviare una carriera musicale?
Io sono un caso anomalo nel panorama musicale perché in realtà non faccio il musicista di professione: per paura (o per senso di responsabilità?) non mi sono mai gettato a capo fitto in quella che purtroppo in Italia non è considerata una professione. Il musicista qui da noi non esiste, è uno che al massimo fa un doppio lavoro. Nella migliore delle ipotesi è soltanto un suonatore, quello che si diverte e fa divertire in cambio di pochi spiccioli. La politica italiana non ha mai investito in questo settore e gli stessi musicisti professionisti non hanno veramente lottato per creare quello che in altri campi è un ordine professionale. Arriviamo da decenni di improvvisati pianobaristi inascoltabili che hanno vissuto solo grazie al mercato delle altrettanto inascoltabili basi musicali, gente che mai si è avvicinata a uno strumento o alla tecnica vocale; e il peggio è che li si sono trovati (parlo al passato solo perché in questi mesi la musica live non è stata praticabile) nei migliori locali e strutture ricettive della nostra penisola.
Soprattutto per queste ragioni la costanza e la motivazione dei neo musicisti italiani penso debba essere altissima, proprio perché sanno di entrare in una giungla che non li valorizzerà né avrà fiducia in loro.
Com'è il tuo rapporto con il web e i social?
Molto conflittuale: da un lato ritengo il web una risorsa inestimabile per le informazioni, per i video non solo musicali talvolta rarissimi e messi a disposizione da amatori e soprattutto per la circolazione delle idee. Al contempo, e mi riferisco ai social, sono un pozzo profondissimo all’interno del quale gettiamo gran parte del nostro tempo, del nostro vivere quotidiano, sprecando una fetta di vita a inseguire per una frazione di secondo le storie di sconosciuti o le imprese alpinistiche del nostro vicino di casa. Io li sfrutto molto per far girare la mia musica e le mie attività lavorative legate all’insegnamento e alla scrittura.
Autoproduzione oggi. Qual è la tua visione?
Probabilmente è il solo futuro in un mondo di majors sempre più inavvicinabili e sorde ai richiami degli artisti emergenti. So benissimo di non aver fatto nulla di epocale con le mie canzoni e pertanto, quando ho inviato i miei brani a centinaia di indirizzi di discografici e affini, non avevo alcuna aspettativa ma, se non altro, confidavo almeno in una risposta negativa o in un piccolo incoraggiamento. Mai nulla è tornato indietro. L’autoproduzione è indispensabile per partire, non se ne può più fare a meno, soprattutto quando non si è nessuno e non si hanno conoscenze nel settore; poi arriverà la sorte e, nel bene o nel male, deciderà sulla diffusione del lavoro.
Come vedi il futuro della musica?
La musica non scomparirà mai ma possono purtroppo scomparire molte cose che le ruotano intorno: abbiamo di recente toccato con mano che cosa vuol dire non poter andare a un concerto e, soprattutto, non poterne fare. Inoltre il mondo digitale ci ha abituati a un ascolto molto frettoloso e superficiale. Scrissi per Nexus un articolo proprio dedicato a questo fattore che intitolai non a caso La musica democratica: per conoscere veramente un autore, fino a qualche anno fa, ci volevano giorni di nastri assimilati e riavvolti mille volte, dischi e poi CD con le copertine sbiadite a forza di lasciarle al sole in auto. Oggi il mio ascolto medio su Spotify non credo sia superiore ai 10 secondi a brano: che cosa mi rimarrà di tutto questo? Che cosa rimarrà dei gruppi di questo periodo a un ragazzino intento ad avvicinarsi alla cultura musicale? Nel mio futuro, per fortuna, vedo ancora tanta bella musica da fare e da ascoltare.