"My name is" è il nuovo lavoro discografico del sassofonista Peppe Santangelo, che è da considerarsi l'evoluzione del suo percorso musicale. Musicista e compositore, con alle spalle una laurea in Musicologia, vive di musica a 360%, con un approccio sia creativo e musicale, che culturale.
Quali sono state le esperienze che ti hanno maggiormente formato?
L'esperienza più bella e più densa di contenti è stata alla civica jazz di Milano. Non tanto per i maestri,
che comunque sono dei grandi professionisti e didatti, ma soprattutto per gli incontri con altri miei
coetanei. Alla fine, quello che più conta in questo mestiere è lo scambio con i musicisti, il mettersi in
discussione, il provare e riprovare le proprie idee con altri esseri umani. C’è da dire, che secondo la legge
dell'attrazione universale si finisce per incontrare sempre le persone che a specchio ti riflettono e ti
possono insegnare qualcosa. Un’altra bella esperienza è stata suonare nella Civica Jazz Band del Maestro
Enrico intra ed incontrare grandi solisti e arrangiatori; da Enrico Rava, a Fabrizio Bosso, Paolo Damiani,
Paolo Silvestri, Percy e Jimmy Heath, Gianluigi Trovesi. Lì, oltre a misurarmi con repertori difficili,
mettevo a confronto le loro idee e vagliavo le mie. Queste le esperienze da studente diciamo così, da
professionista le faccio tutti i giorni, devi essere sempre preparato per salire sul palco, perchè il pubblico
è esigente e conosce molta musica.
Oltre allo studio del sassofono ti sei dedicato allo studio della Musicologia, laureandoti con una tesi
dal titolo "Jazz: Forme, Struttura e linguaggio". Qual è il messaggio centrale?
Lo studio della Musicologia mi ha dato un approccio diverso alla musica, molto meno tecnico, molto più
intellettualistico. Sono stato sempre appassionato e innamorato della conoscenza, studiare Musicologia ti
approccia alla musica da altri punti di vista, Filosofico, Estetico, Formale, Psicologico, Poetico. Io ritengo
che il Musicista non è il suo strumento, ma l'universo intero, ed è obbligato ad apprendere più cose possibili
per riversarli nella propria arte per darle un portato universale, altrimenti diventa un esecutore di concetti
che appartengono alle dita e non al pensiero e nemmeno all'anima.
E' appena uscito il tuo nuovo album "My name is". Ce ne vuoi parlare?
È il disco della maturità. L'ho scritto per omaggiare i grandi compositori del passato che mi hanno
influenzato, tributare un riconoscimento e tendermi oltre, verso il mio stile, la mia strada. Il disco si
chiude con un brano auto-dedicato, Peppe'S Groove, dove simbolicamente chiudo il cammino del disco aprendone
un altro che arriverà in futuro nei prossimi dischi. Prima di questo, i brani sono Pat, Sonny, Wayne, Dexter,
Thelonious, John, Chris, Horace, dai nomi dei grandi compositori che omaggio. I brani sono tutti originali,
dove prendo spunto da alcune loro composizioni, ma vengono nascosti dietro a temi e riff o groove che ho
scritto. Credo che il disco abbia una propria storia e sound, e pur ringraziando prendendo spunto, il mio
stampo e stile è indubbio. Alcune recensioni già pubblicate dicevano proprio questo, con mio sommo
piacere.
Che jazzisti consiglieresti di ascoltare?
Dare un consiglio è molto difficile, in quanto spesso interviene il gusto. Sicuramente posso consigliare
quello che piace a me, che ascolto spesso. Mi piace ascoltare musicisti che stanno lavorando sull'estetica del
jazz con tante influenze da altri mondi, come del resto è sempre stata la filosofia del jazz, checchè se ne
dica. Dunque: Dhafer Youssef, Tigran Hamasyan, Ben Wendel, il sempre giovane Dave Holland, Chris Potter, Brad
Meldhau, Joshua Redman, Nate Smith, Snarky Puppy, Troy Roberts, Brian Blade......
Sei aperto alla sperimentazione?
La mia musica è sempre sperimentazione, nel senso letterale del termine. Non so se sono innovativo, lo
deciderà il pubblico un giorno, forse si, forse no, non è fondamentale per me avere affibbiata un’etichetta
stilistica, io sperimento a partire da me stesso. Mi metto sempre in discussione, e quando scrivo registro e
pubblico un disco, l'ottica è sempre quella di: portarmi qualche passo avanti rispetto al precedente sia
compositivamente, melodicamente, formalmente, improvvissativamente, filosoficamente. Altrimenti non farei
questo mestiere, e finirei per annoiarmi.
In che modo il web e i social possono essere di aiuto per un musicista?
Il web è un’arma a doppio taglio. Facile da usare, ti permette di raggiungere tante persone in pochi istanti.
Il problema ancora poco compreso è che nel web, soprattutto i social, molto usati dai musicisti, l’uomo dà il
peggio di sé, in quanto è un mezzo informale, anonimo, inespressivo. Dopo un po' diventa un gioco al ribasso,
dove rimanerne incolumi diventa arduo, e se un artista ne rimane coinvolto perde la propria purezza e con
essa, anche la propria missione. Purtroppo conosco molte persone che hanno pagato caro lo scotto dell’utilizzo
spasmodico del Web, non credo neanche che se ne siano accorti, ma è così. Poi ci sono molti risvolti positivi,
ma non credo abbia senso parlare delle cose che vanno bene, se vanno bene. Potrei trattare molti altri aspetti
delle influenze in negativo del web, per esempio la tendenza a far video musicali tra musicisti che non si
sono mai conosciuti e che registrano a distanza in luoghi diversi. Questa è una cosa che fa male alla Musica,
all’arte, alla conoscenza tutta. Perché scopo della conoscenza non è accumulare sapere, ma assorbire nozioni
utili alla tua esperienza, che è una cosa ben diversa. Preferisco fermarmi qui per non essere troppo
lungo.
Come vedi il futuro della musica?
Io sono ottimista, e spero, devo per forza di cose sperare, che la gente prima o poi si stuferà di stare
attaccata agli smartphone o alle televisioni, e torni nelle piazze e nei locali ad abbracciare i propri
simili, a ballare coi propri simili, a cantare coi propri simili. Se così non sarà, avremo maledettamente
mandata all’aria centinaia di anni di conoscenza e di uomini e donne che hanno lottato per preparare questa
epoca ricca di opportunità di sviluppo, umano, coscienziale e personale.
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